domenica 3 febbraio 2013

L’Occidente non sa più giocare


A più di sessant’anni dalla morte, l’acuta e arguta opera del fratello del famoso Ernst Junger consente di leggere a fondo le ragioni di una crisi epocale.





In questa lenta grigia estenuante agonia dell’Occidente dove cercare una salvezza?
Nella politica?
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio o nella meditazione trascendentale?
Nella rivoluzione o nelle riforme?
Nell’ingegneria genetica o nei mondi virtuali?
La strada giusta, secondo Friedrich George Junger (1898-1977) è un'altra: il gioco.
È una ri­cetta “dettata” da Schiller nel 1795 e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
Friedrich George Junger è il fratello minore del più famoso Ernst (1895-1998) la ideò in un libro del 1953, che circa dieci anni fa è stato portato a conoscenza dei lettori italiani: Saggio sul gioco. Una chiave per com­prenderlo" (Ideazione edi­trice).


È passato più di mezzo secolo dopo, ma quel libro è ancor più valido che mai, dato che nell’intervallo di tempo, le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, ad abundantiam: una civiltà che non sa più giocare, è condan­nata alla decadenza.


Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno.
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.
Oramai invece abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”.
La nostra civiltà del tutto-mercato che valuta il progresso del paese dall'in­cremento della produttività lavorativa e per la quale, la domenica restano aperti i mega-stores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile.
Il grande scienziato Carlo Linneo definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante”, soprat­tutto quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”;  Bergson lo definì “fa­ber”, perché fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica.
Per  Junger la grandezza del­l’uomo e soprattutto nel gio­co: “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.
Il gioco, infatti, è una attività che ha in se stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè.


Non è certo la serietà che distingue il lavoro dal gioco.
Anzi Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro» e per un “socialista” era già molto!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
Quando gioca, l'uomo è come Dio che creò il mondo «per gioco».
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro.
E davvero tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente. Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”. Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.
Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.
Ma non sempre ciò che viene chiamato gioco lo è vera­mente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo.
Merito non piccolo di que­sto elegante e raffinato saggio è di saper cogliere, in ogni manifesta­zione della vita, la presenza del gioco, e, insieme, la sua degenerazione, che mai aveva rag­giunto i livelli del nostro tempo.
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Al contrario di quanto ancora av­viene in uno dei giochi, anzi dei riti, più carichi di senso, la corrida (alla quale il libro dedica delle pagine stupefacen­ti).


Dove il gioco raggiunge il massimo di gioia e soddisfa­zione è nell’amore: «Che gli innamorati siano sufficienti a se stessi, che non desiderino altro che se stessi, che la pura inclinazione, che non si con­fonde con un fine o un utile, non conosca neppure fine ed utile, nè sopporta di esservi vincolata, tutto ciò l'avvicina al gioco».
Un gioco oggi lar­gamente perduto.
Dato che non è gioco, l’eros tranquil­lante e distaccato, cui spesso lo si riduce negli spot (“far bene l'amore fa bene all’amore”) , quasi alla stregua di una pillola o di una “dose”...


Il sentimento vi è sottomesso al calcolo della ragione stru­mentale: «È ridicolo dire che l'amore è sport, esercizio fisi­co, ginnastica. Che non sono più giochi puri, cioè privi di qualsiasi relazione con uno scopo o un utile al di là del gioco».
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nell’incapacità di giocare, ossia di realizzare nel gioco il trinomio salvifico di libertà, legge e piacere.
Senza negare l’utilità del lavoro, Junger ripropone il gioco vero, quello di che tutte le civiltà tradizionali sono state capaci. Quello per cui Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera»; quello per cui Nietzsche po­teva affermare che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»