venerdì 22 novembre 2013

Un comunicato di allerta via fax di domenica? Geniale!!!


 Tutti pronti sui media a criticare il capo del Dipartimento della Protezione Civile Franco Gabrielli che -stanco vedere additato come unico colpevole il Dipartimento da lui gestito- si rivolge alle istituzioni locali per non aver saputo gestire «l’allerta» lanciato per tempo.
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utti pronti sui social networks a liberare tutto il veleno che si ha in corpo, offendendo –travisandone le parole e distorcendone il senso– l’eurodeputato Lara Comi che in una trasmissione tv ha posto la questione che occorre anche avere «un’educazione alla prevenzione», riferendosi a coloro che hanno concesso l’abitabilità ad uno scantinato come quello dove è morta un’intera famiglia di quattro persone a Olbia.
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utte le volte la stessa storia: dopo un disastro ambientale, terremoto, alluvione, slavina, smottamento, anche stavolta è subito cominciato il solito, insulso e becero baillame di scaricabarile istituzionale, per lanciare un po' di quel fango, che ha intasato le vie e fatto crollare le strade, addosso all'altro ufficio!!
Tutte le volte la stessa identica storia! 
Come ci spiega oggi Cristiano Gatti su “ilGiornale” (www.ilgiornale.it/news/interni/sardegna-tragedia-lallarme-dato-fax-969692.html)
Quod erat demonstrandum!
Poi si scopre che l'allarme per l’emergenza meteo è stato inviato via fax agli uffici comunali competenti di domenica, quando erano ovviamente chiusi.
Geniale vero?


Anche un bambino di 10 anni sarebbe arrivato a capire che mandare un fax di domenica in un ufficio per una comunicazione urgente sarebbe quanto mai inutile. Da dementi.Poi si scopre anche che a Olbia in quarant'anni ci son stati ventuno condoni edilizi, in media uno ogni due anni…

E una deduzione balugina nelle nostre menti: com’è possibile che i ponti costruiti dagli ingegneri dell’Impero Romano resistano dopo duemila anni a queste tragedie, e invece un ponte inaugurato due anni fa -costruito dai super esperti ingegneri di questa epoca- si sia sbriciolato come un castello di sabbia sotto l’impeto di un’onda di fine estate.
E nel frattempo la mia amata terra è stata stravolta, devastata e offesa dalla violenza di una terribile alluvione. Ma violentata soprattutto dalla sventataggine di molti burocrati.
E sedici –dico sedici!!– tra uomini, donne, anziani e bambini, son stati tragicamente immolati a queste sbadataggini burocratiche…

  E non solo!!
Anche dopo la tragedia le istituzioni anche stavolta si sono solo sapute dilettare, sprofondate nelle loro poltrone morbide, nell’elaborare toccanti comunicati-stampa in cui esprimono il loro dolore… ma l’unica vera solidarietà è quella dei singoli eroi e di quei tanti volontari intenti a spalare il fango per le strade di Olbia o Torpè o Posada…

domenica 17 novembre 2013

«ludopatia» o «pecuniopatia»?


Nel turbinìo dei neologismi, ultimamente ha fatto ingresso il termine “ludopatia” ovvero il gioco d'azzardo patologico.
Classificato come un disturbo del comportamento che, rientrerebbe nella categoria diagnostica dei “Disturbi del controllo degli impulsi” secondo la classificazione del DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV edizione).
Il giocatore patologico «mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d'azzardo, aumentando la frequenza delle giocate, il tempo passato a giocare, la somma spesa nell'apparente tentativo di recuperare le perdite, investendo più delle proprie possibilità economiche (facendosi prestare i soldi) e trascurando gli impegni che la vita gli richiede».
Di storie di giocatori che … hanno perduto persino le mutande (oltre che la casa o la moglie) nei casinò ne son pieni i giornali fin dall’alba dei tempi…
Dove sta dunque la novità?
Io mi domando però l’effettiva correttezza terminologica di “ludopatia”, ovvero gioco patologico.  Son davvero attratti dal gioco o forse più dall’eventuale (molto remoto) guadagno che dal gioco si spera di ottenere?
Allora non sarebbe più corretto “crometopatia” o “plutopatia” o “pecuniopatia” ovvero attaccamento patologico verso i soldi o la ricchezza?
È il gioco in sé che li attrae o la speranza (mal riposta?) di ottenere un piccolo guadagno?
A questo proposito mi è balzata alla mente una deduzione che feci tanto tempo fa: la società moderna occidentale ha perso il “gusto di giocare” cogliendo nel gioco null’altro che … il piacere ludico.
L’Occidente nella lenta, banale, asfittica, grigia ed estenuante agonia in cui versa, dove cerca una salvezza?  
Nella tecnologia?
Nel sesso selvaggio?
Nella meditazione trascendentale? 
Nella politica?   
Nella rivoluzione o nelle riforme?   
Nei mondi virtuali?     
Friedrich George Junger (1898-1977) fratello minore del più famoso Ernst(1895-1998) indica in un libro edito nel 1953 la strada giusta nel gioco.
È una ri­cetta “ispirata” da Schiller e ripresa da tutti quei maestri del “pessimismo culturale”, come Schope­nhauer, Nietzsche, Rilke, Spengler e Benn, ai quali Junger si collega.
È passato più di mezzo secolo, ma quel libro è più valido che mai: le intui­zioni dell’autore sono state confermate, purtroppo, “ad abundantiam”: una civiltà che non sa più giocare, è condannata alla decadenza. 
Il gioco, infatti, è una parte in­tegrale della festa e la sua ciclicità attribuisce un senso cosmico e antropologico alle ricorrenze dell’anno. 
La festa è il giorno in cui non si lavora, ma si gioca, è il tempo libero che consente l’espressione gioiosa della personalità.   
Oramai –infatti–  abbiamo perduto il senso del “giorno di festa”. 
La dimostrazione è –ad esempio! – il fatto che anche la domenica, giorno di festa per eccellenza, troviamo i centri commerciali aperti…
La nostra è una civiltà che valuta il progresso del paese dal punto di vista dell’in­cremento della produttività lavorativa, in nome della quale, la domenica restano aperti i megastores, secondo l'imper­ativo del consumismo “com­pra e fuggi”, ha reso la questione difficilmente comprensi­bile. 
In parallelo col famosissimo scienziato Carlo Linneo che definì l’uomo “sa­piens”, in base alla sua gran­dezza in quanto “pensante” «quando si stacca dall’utile e diviene “speculazio­ne”»;
con Bergson che lo definì “fa­ber”, perché «fabbrica il mondo con la scienza e la tecnica», per Junger la grandezza del­l’uomo è soprattutto nel gio­co, infatti lo defisce “homo ludens”, come aveva detto poco prima di lui lo storico olandese Huizinga.

Il gioco, infatti, è una attività che ha in sè stessa, il suo fine, dunque una attività libera, a differenza del lavoro che ha il suo fine fuori di sè. 
Ecco perché non può essere definita il gioco d’azzardo patologico non è e non può essere “ludopatia”. Qui infatti il “gioco” non è un’attivita libera ma ha un fine, uno scopo: il guadagno.
E sbaglia chi contrappone la serietà (del lavoro) al gioco.
Giovanni Pascoli parla di «gioco serio al pari del la­voro»!
In realtà il vero gioco è molto più serio del lavoro.
I sociologi della nostra ci­viltà la definiscono anche “ludica”, cioè una civiltà dove il “ludus” è prevalente sul lavoro. E per certi aspetti tutto sembra, oggi, un gioco.
Gioco la politica, gioco la scuola, gioco gli audiovisivi, gioco le lotterie in numero sempre crescente.
Gioco l’amore, sia quello reale, che quello virtuale; gioco l’evasione chimica …in un’“altro mondo”.
Gioco la discoteca, gioco lo sport, il casinò e le corse dei cavalli.   Segno che l'uomo senza gioco non può vivere.

Ma poi talvolta proprio il gioco non lo è realmente.
Basterebbe pensare allo sport, che con lo spirito religioso di Olimpia oramai non ha più molto in comune e si è trasformato fu industria e spettacolo. 
Si pensi alla caccia: un gioco da sempre, dato che l’uomo, a differenza dell’ani­male, la esercitava senza motivi di utilità, spesso in collega­mento con la religione.
Ma oggi è sempre meno gioco: le armi della caccia, dal me­dioevo a oggi, si sono a tal punto perfezionate, da eliminare ogni rischio.
Quindi tutto diventa gioco… tranne il gioco.
La crisi della civiltà occi­dentale, nonostante la sua ricchezza, le sue perfezioni tecnologiche, appare in tutta evidenza nella sua perdita della capacità del vero senso del giocare, ossia di realizzare nel gioco, il trinomio libertà-legge-piacere.

Eraclito vede­va «nel tempo, il regno di un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera» e il severo e misantropo Nietzsche affermava che «nel gioco, ciò che è inutile, può essere considerato come l’ideale dell’uomo sovraccarico di forza»…